di Antonio Onorati (da Il Manifesto)
Ci viene raccontata una storia che dovrebbe tranquillizzare quelli che hanno a cuore le sorti dei lavoratori. Si sostiene che l’agricoltura industriale per mantenere bassi i prezzi per i consumatori «è costretta a risparmiare sulle risorse impiegate per il lavoro». In altre parole ci vogliono convincere che pagare un bracciante clandestino 2 o 3 euro l’ora per raccogliere frutta o verdura o fare lavori di campo sia giustificato dalla necessità di rendere disponibili i prodotti alimentari a prezzi accessibili a tutti.
Niente di più lontano dalla realtà. Secondo l’indice dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati, fatto 100 per il 2015, nel 2020 era vicino a 105, ad aprile 2021 superava già 105, a gennaio 2022 (prima della guerra in Ucraina) era vicino a 110 e da ottobre 2022 si è attestato intorno 120 fino al mese di aprile 2024. Dal 2000 al 2024 (aprile) questi prezzi hanno subito un aumento del 58,9%. La riprova sta nei dati più recenti relativi all’andamento dei consumi alimentari.
Nel 2023 aumenta la spesa per tutti i comparti alimentari. In particolare, cresce la spesa per le uova (+14,1%), per i comparti di latte e derivati (+11,7%) e dei derivati dei cereali (+11,7%). Importanti anche gli incrementi di spesa per le carni (+6,7%). Più in generale la spesa per i consumi alimentari domestici è aumentata dell’8,1% rispetto al 2022 ma è diminuito il volume dei prodotti alimentari acquistati. Paghi di più per comprare meno.
L’agricoltura industriale ha una finalità banale e visibile: stabilizzare o aumentare i profitti ottenuti dal capitale investito nelle attività agricole e, poiché è fragilizzata dalla sua dipendenza dalle forniture a monte di cui non controlla i prezzi (energia, sementi, macchine, logistica…), usa un meccanismo scontato, quello di comprimere i costi del lavoro. Fino alla schiavitù.
In questo il caporalato è giusto un corollario, è la struttura di produzione di queste aziende che – osannate come competitive, moderne e «italianissime» – trova nello sfruttamento del lavoro il modo più semplice per garantirsi livelli di profitto stabili, salvo poi incamerare la parte più importante del finanziamento pubblico per l’agricoltura, sia europeo che italiano. In nessun modo il potere di mercato della Grande distribuzione organizzata può giustificare queste pratiche.
Se ci sono prezzi bassi pagati al cancello delle aziende agricole questi vanno a tutto vantaggio della Gdo e dell’industria agroalimentare, del cosiddetto «made in Italy», non certo del consumatore. Ma c’è anche un altro meccanismo di sfruttamento, o, meglio, di autosfruttamento. Le aziende agricole di piccola o media dimensione, che vivono grazie al lavoro del conduttore/trice, che ricevono solo qualche spicciolo del sostegno pubblico all’agricoltura («pochi ettari, pochi sostegni») e che producono essenzialmente per il mercato interno, debbono competere nello stesso spazio di mercato delle grandi imprese agricole, quelle che ricevono i soldi dei finanziamenti pubblici. Competizione sleale tra sistemi economici diversi, con logiche diverse.
I prezzi pagati alle imprese che occupano lavoratori salariati non remunerano il lavoro del contadino che lavora direttamente ed in solitudine nella sua aziende. Se vuole mantenersi il posto di lavoro deve autosfruttarsi fin dove le energie glielo consentono, magari chiedendo aiuto a qualche familiare. E i dati ce lo confermano.
Il numero di lavoratori agricoli indipendenti (i coltivatori diretti) negli ultimi decenni diminuisce con tassi a due cifre ma il numero totale delle giornate di lavoro annue che presta nella sua azienda diminuiscono solo di qualche punto percentuale. Molte aziende contadine spariscono (2 su 3 negli ultimi 38 anni), chi resta in quelle che sopravvivono lavora molto di più di quanto facesse prima. E questa è la situazione di circa 900mila piccole aziende agricole.
FONTE: Il Manifesto