8 Maggio: Le Madri Infinite

di Mimma Di Marcantonio

Scrivere a proposito della festa della mamma é quasi impossibile senza scivolare in luoghi comuni. Una ricorrenza che ha un’origine molto antica, si celebrava già all’epoca dei Greci e dei Romani, era legata al culto delle divinità femminili e della fertilità. Così come la conosciamo attualmente, viene da una proposta fatta, per celebrare tutte le mamme del mondo, da Julia Ward Howe a Maggio del 1870 negli Stati Uniti. Però la prima festa venne realizzata solo il 10 Maggio 1909, a Grafton (USA), grazie alla insistenza e tenacia di Anna M. Jarvis, che ne scelse anche il simbolo, un garofano bianco, che era il fiore preferito della mamma deceduta ed alla quale era molto legata. Nel 1914 divenne, per decisione del Presidente Wilson, una manifestazione pubblica da realizzarsi ogni seconda Domenica di Maggio. In Italia venne celebrata per la prima volta nel 1956, da Don Otello Migliosi ad Assisi ed, ufficialmente, dal 24 Dicembre 1933. Venne denominata Giornata della Madre e del Fanciullo.

Potremmo ricordare qui alcune delle celebri madri della storia, quella italiana in particolare. Ad esempio Cornelia, matrona romana, la famosa madre dei Gracchi, immortalata da una frase. Si narra che, davanti a l’ostentazione che un’amica faceva dei propri preziosi monili, ella disse, indicando i figli, “Questi sono i miei gioielli”. Espressione diventata proverbiale; Maria Giacinta Drago, madre di Giuseppe Mazzini, durante il Risorgimento, nell’epoca della lotte per l’unità nazionale, che ne fu l’esempio più emblematico; Maria Bergamas, la donna scelta tra le madri dei soldati che persero la vita al fronte, durante la prima guerra mondiale e che dovette scegliere una delle undici bare di ragazzi morti e non identificati, nella basilica di Aquileia, il 28 Ottobre 1921, quella del Milite Ignoto che da allora riposa, a Roma, nell’altare della Patria e che rappresenta, simbolicamente, tutti i caduti e dispersi in guerra. Come loro, un lunghissimo eccetera di madri ricordate dalla storia e dalla letteratura. Secondo vari autori alcune di loro, come Beatrice Mastrogiovanni Tasca di Cutó, madre di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, scrittore del «Gattopardo», forse contribuirono alla creazione del mito della mamma italiana, apprensiva, protettiva ed anche un po’ opprimente. Uno degli stereotipi ancora presenti. Pare che non ci sia paese al mondo che esalti la figura materna nei secoli, come l’Italia, nella letteratura, poesia, canzoni, cinema ecc…Nel 1952 lo scrittore Corrado Alvaro, scrisse per la prima volta la parola «mammismo», da lì, viene anche il termine «mammone» per definire qualcuno molto attaccato alla madre.

Il termine «Madre» viene dalla radice sanscrita e significa «formare, preparare», quindi colei che prepara il figlio alla vita. Cos’è la «maternità»? solo generare e partorire un figlio o anche la qualità di chi è umanamente disposto ad un’accoglienza incondizionata di chi è più debole?

Il concetto di maternità ha subito variazioni nel tempo. L’età per concepire, il numero di figli. Nella società occidentale, dove i modelli sociali e culturali vengono quasi imposti dai media e dalla pubblicità, ormai si assiste a generazioni di figli unici di madri sempre più avanti negli anni. Anche dal punto di vista semantico i cambi sono notevoli. Nei tempi passati si diceva «aspettare un figlio», soprattutto nel Medioevo, quando le donne consapevoli che i loro figli costituivano una risorsa economica per la famiglia e che molti di loro morivano precocemente, ne partorivano quasi uno all’anno fin dalla prima giovinezza. Oggi invece si dice «fare un figlio», «scegliere di fare un figlio». La ricerca scientifica è necessaria, però nell’attuale panorama bioetico sembra che la sacralità della vita abbia ceduto il posto alla qualità della stessa ed in minore misura alla dignità. La modernità ed il benessere, non sembrano essere sinonimi di umanità se spingono questo mondo all’estremo assurdo di coniare dei termini come: «maternità surrogata», «utero in affitto», «gestante per altri», «gestante d’appoggio», «portatrice gestazionale».

Significa che per qualcuno si può comprare anche un figlio, affittando un utero di chi, nel 90% dei casi, a causa della povertà, è disposta a fare da «contenitore» di esseri umani, o per fecondazione artificiale (ovulo proprio e spermatozoo dell’uomo che forma parte della coppia che poi fungerà da genitori), o per fecondazione in vitro (quando le viene impiantato un embrione prodotto dall’unione dell’ovulo e dallo spermatozoo dei genitori del bimbo). In Italia, è proibita dalla legge, ma già molti personaggi famosi e dello spettacolo, negli USA ed altrove, sono ricorsi a questa pratica. Alcuni, che avevano congelato i propri embrioni, prodotti con il/la compagno/a del momento, in attesa di collocarli in un ventre in affitto, una volta finito «l’amore», hanno deciso addirittura di distruggere quei due esserini prigionieri di un congelatore o hanno messo il problema in mano agli avvocati per definire chi dovrà riscattarli. Questo genere di pratica causa effetti psicologici deleteri sulla mamma biologica e sul bambino, dovuto alla loro separazione, in quanto il dialogo sensoriale ed emotivo tra madre e figlio si struttura durante la gravidanza, indipendentemente dalla genetica. Che sarà poi della vita di queste madri? E, soprattutto, chi si preoccupa dei diritti, della salute psicologica del nascituro, essere umano e persona? Viene al caso l’articolo di E. Kingma, filosofa e professoressa del King’s College di Londra e coordinatrice di un progetto europeo che studia la gravidanza. La Kingma sostiene che il feto è parte del corpo della mamma e contrappone questa sua visione a quella assurda di altri studiosi che vorrebbero la madre come semplice «contenitore».

L’utero è l’unico organo collettivo della nostra specie, che la donna condivide con l’uomo ed il figlio di entrambi, frutto dell’amore che si professano. Come scrive il mio amico Vittorio, il volto della mamma è la prima immagine che si imprime nella memoria di un bambino. La parola -mamma- è la prima che si impara a pronunciare e viene ripetuta in tantissime occasioni nel corso della vita, nei momenti di gioia, di dolore, di sorpresa, di solitudine (….) rappresenta per ciascuno di noi un’immagine sacra, la propria mamma, che è al di sopra di ogni cosa, ogni opinione, ogni credo e a volte anche al di sopra del proprio Dio».

Ogni mamma è un universo di luci, di colori, di emozioni, dal momento in cui si rende conto di avere una nuova vita crescendo nel grembo. In ogni circostanza che è chiamata a vivere, la maternità rende una donna forte, decisa, capace di compiere anche missioni impossibili. Non c’è felicità più grande per lei che quella di specchiarsi innamorata nello sguardo del proprio bambino, raggiungere con il fiato sospeso ogni suo nuovo traguardo, trascendere nella luminosità dei suoi orizzonti. Insieme al padre ha il dovere di aiutarlo a costruire ali forti e robuste per poi, insieme, godersi lo spettacolo di vederlo volare sicuro e libero nel vento della vita.

Quante donne, quante al mondo, che non appariranno mai sui libri, sui rotocalchi, sui giornali sono degne di encomio e di ricordo. Madri che da città o paesi, in riva al mare, in pianura o in montagna, hanno salutato i propri figli e trascorso anni nell’ansia, attente allo scandire delle ore, in attesa di loro notizie. O quelle, come Maria Bergamas, che li hanno visti partire e non li hanno più visti tornare o tornare rinchiusi in una bara.

Madri disperate al capezzale di un figlio moribondo, madri strappate alla vita nella pandemia, madri rassegnate nel parlatorio delle carceri, madri dalle spalle curve portando a vita gravi disabilità di un figlio.

Madri, come la Madre Terra, fertili, feconde, generose dispensatrici di vita. Come Maria, benedetta e piena di grazia, e benedette e piene di grazia, tutte le madri, le madri infinite, nella donazione di sé, nel sorriso, nella tristezza, nel pianto, nella gioia e nella felicità dei figli. Merito immenso di quelle che pur non avendoli partoriti, generosamente si prendono cura dei figli delle altre. La generosità è femminile e materna.

Nomi di madri, degne di encomio e ricordo, come Marietta, Laurina, Dina, Emilia, Domenica, Giuditta, Elisabetta, Filomena, Ida. Eroine!. In quei paesetti dei Monti della Laga, o di qualsiasi luogo del territorio italiano, che, reduci dalla tragedia della guerra mondiale appena finita, crescevano i figli, mentre aiutavano gli uomini nei campi. Una vita semplice, faticosa, in piccole comunità, abituate al lavoro, alla solidarietà, all’aiuto reciproco, al rispetto ed alla sana convivenza, in comunione con la natura e l’umanità circostante.

Le vedo accompagnare i figli in città, sento lo strazio nel loro cuore, ammiro la loro capacità di infondersi ed infondere coraggio per affrontare il distacco, sforzarsi ad un sorriso per insegnare loro ad esorcizzare paure ed incertezze, aiutarli a salire sul treno che li portava lontano, bambini e bambine in collegio, per offrire loro un futuro migliore e, poi, con la stessa speranza, fare le valigie per tutta la famiglia ed avviarsi verso nuovi luoghi in Italia ed all’estero, sempre più lontano.

Di guerre ce ne sono tante, le bombe non cadono solo dal cielo, sono altri i fucili ed altre le spade che causano ferite e segni indelebili. Nelle fontane, sulle pietre dei ruscelli, dove lavavano i panni, sui sentieri in cui erano abituate ad andare riecheggia ancora il suono delle loro voci e dei loro passi, adesso che tutto è disabitato, desolato, e triste, dove anche il mormorio delle fontane è finito.

Le vedo, le madri migranti, crearsi una nicchia in territori sconosciuti dove accendere con l’amore un focolare, trasmettere cultura e tradizioni, preparare i figli alla vita, e, come Giovina, accogliere anche quelli delle altre, arrivati da soli, disorientati, sbigottiti, riceverli in casa, accudirli, confortarli, aiutarli a superare ostacoli e timori, accompagnarli all’altare per il matrimonio e battezzare loro i figli.

Le vedo oggi, in un altro secolo, in un mondo diverso, come in una ripetizione perpetua di riti e liturgie, nelle nuove migrazioni, accompagnare i propri figli ed abbracciarli con forza negli aeroporti, fare la spola da una nazione all’altra per condividere delle ore o alcune giornate, per accudire i nipoti.

Le vedo, le mamme sole o in case di riposo, rese deboli e vulnerabili dall’andare inesorabile del tempo. Le sento, quelle ancora più sfortunate, nel loro dolore straziante, immobili da mesi, con il corpo martoriato da piaghe e fratture, come Olga, accompagnate solo dalla pietosa presenza di una badante. Lei, una delle sventurate portatrici di maternità calpestate, fallite, rinnegate e profanate dall’indifferenza e dalla sacrilega ingratitudine dei figli, miseri ostaggi, questi, di chissà quali crudeltà e circostanze. Sono Madri prostrate, sconfitte, arrese, in attesa di trovare pace nell’ultimo respiro.

Non è giusto dimenticare, nessuna di loro, è il santo esercizio della memoria, la terapia che aiuta e sostiene, che evita l’oblìo, che ci mantiene emotivamente stabili e legati alla realtà. Le nostre nonne, le nostre mamme, ce le portiamo dentro, nella nostra psiche, nel nostro DNA, come un passaporto per la vita che fa di noi delle persone autentiche, assertive e positive, sufficientemente empatiche per condividere il nostro spazio ed il nostro tempo con chi ci circonda. Con amore e saggezza incommensurabile, ci hanno insegnato i valori della convivenza, della solidarietà, della compassione, del coraggio e della forza. Sono state MAMME, davvero e completamente. Ci hanno insegnato che quando si ha un figlio si hanno tutti i figli dell’universo, come magistralmente scrive Andres Eloy Blanco, nel suo stupendo poema «Los hijos infinitos».

Le madri sono chiamate a mantenere viva l’anima del mondo, consapevoli della loro forza e del loro potere, audaci, lungimiranti, decise, sono quelle destinate a realizzare un cambio epocale nell’umanità e nel pianeta. Ha ragione Vittorio, “La mamma unisce la famiglia, la societá.( ..)”.

Se si potessero unire tutte le mamme di questo mondo non ci sarebbero più guerre. Nessuna mamma manderebbe in guerra il proprio figlio».