di Gianni Santamaria
Lo storico Toni Ricciardi: «I riflettori puntati sui movimenti transoceanici lasciano spesso in ombra i fenomeni migratori interni al continente, non meno decisivi». Marcinelle data spartiacque
Il visitatore di una libreria, guardando lo scaffale di storia, vedrà che «la metà dei libri è sul fascismo, un quarto sul miracolo economico, che è durato otto anni, e l’altro quarto sulla storia politica». Poco o niente sulle migrazioni che pure sono un «fenomeno sociale che ha interessato milioni e milioni di italiani e di italiane, tanto che dall’Unità d’Italia a oggi abbiamo sfondato il muro dei 35 milioni di partenze». Per «invertire questa gerarchia dei temi» Toni Ricciardi, storico delle migrazioni dell’Università di Ginevra, con un pool di studiosi, ha dato vita al progetto di una Storia dell’emigrazione italiana in Europa. , di cui è uscito per Donzelli il primo volume dei quattro in programma (pagine 240, euro 27,00), che va Dalla Rivoluzione francese a Marcinelle (1789-1956). Seguiranno quelli dal Trattato di Roma all’elezione del primo Parlamento europeo (1957-1979); dalla generazione Erasmus al Trattato di Nizza (1987-2001); fino all’ultimo ventennio, dall’Euro al Covid (2002-2022).
Genova: la Commenda di Pré ristrutturata e sede del Mei, Museo Nazionale dell’Emigrazione Italiana – Ansa/Luca Zennaro
Quale l’intento dell’opera?
Invertire la gerarchia dei temi della storia europea degli ultimi due secoli e mezzo, dove le migrazioni nel Continente sono state marginalizzate. Mentre è il fenomeno sociale più importante che ha caratterizzato e modificato non solo l’Italia, ma l’Europa. Mettere come chiave di lettura primaria la migrazione ci consente di rileggere i luoghi, le dinamiche, le direttrici. E capire come nasce e si sviluppa il lento processo di unificazione europea.
Un volume per due secoli, tre sugli ultimi sessant’anni, Come mai?
La periodizzazione non è quella classica. È scandita da un fatto legato all’emigrazione italiana o da uno legato al processo di integrazione europea. Come data d’approdo del primo volume potevamo scegliere il 1945 o il 1946. Alla fine abbiamo deciso per Marcinelle.
Perché?
Perché segna la chiusura di una stagione, anche narrativa, dell’emigrazione. Fino ad allora era raccontata come sofferenza, si pensi al cinema neorealista. Dal 1960 con La dolce vita l’Italia cambiò la narrazione di se stessa, sia all’interno che all’esterno: non più Paese in ginocchio, ma potenza mondiale.
Perché riflettori sono stati puntati più sui bastimenti diretti Oltreoceano?
In parte perché, per usare un termine moderno, chi salpava dai porti era in gran parte tracciabile, quindi le cifre più certe. Poi c’è stato l’atteggiamento dello Stato. Nel 1901 la prima legge organica, che istituì il Commissariato all’emigrazione, definì l’emigrante come colui che viaggia in terza classe e si reca al di là dello stretto di Gibilterra o del canale di Suez. L’emigrazione europea non era contemplata e disciplinata. Eppure il bilancio complessivo tra 1876 e 1975 è di 14 milioni di partenze per l’Europa e 13 nel resto del mondo. Nonostante ciò l’emigrazione europea è stata a torto relegata al Belgio, con il carbone e Marcinelle, e alla Germania con l’industria automobilistica.
Come se ne prese consapevolezza?
Gli statistici sin dai primi del Novecento elaborarono la definizione di emigrazione temporanea o permanente. La prima era legata non tanto alla durata o alla stagionalità, ma al fatto che ci si recava in Europa. Mentre la seconda era la transoceanica. Bisognerà attendere la legislazione del 1919 perché si parli di emigrazione da lavoro in Europa.
C’era una differenza geografica tra i partenti?
Sì, verso l’Europa si emigrava soprattutto dal Nord. Mentre l’emigrazione transoceanica riguardava soprattutto il Mezzogiorno. Tant’è che sorse uno scontro sulle tasse che servivano a gestire le spese di assistenza: la maggior parte delle risorse venivano dai permanenti, dunque dai meridionali, ma i temporanei volevano gli stessi servizi.
Ci si aspetta un inizio dalle grandi migrazioni ottocentesche. Perché dal 1789? È la data spartiacque. Fino a quel momento l’immigrazione era incentivata e l’emigrazione una piaga da com- battere. Con l’avvento della prima e poi della seconda rivoluzione industriale e dell’imperialismo bisognava giustificare perché si investiva nelle colonie. Uno degli elementi centrali divenne l’emigrazione come valvola di sfogo, come soluzione possibile. L’Italia repubblicana in piena continuità con il passato la userà come pilastro della ripartenza economica. Tant’è che parlo di una Repubblica fondata sull’emigrazione.
Quanto pesò nelle varie fasi?
Fu un elemento essenziale, fu la politica economica più forte adottata. Basti vedere il numero di convenzioni, trattati, protocolli siglati dall’Italia. Dal primo, con la Svizzera nel 1868, sono stati oltre 200. Nella fase repubblicana ne abbiamo siglati con tutti: Cecoslovacchia, Svezia, Norvegia, Bulgaria. Pensiamo poi alla prima fase dell’unificazione europea che avvenne attraverso il petrolio dell’epoca: il carbone e poi l’acciaio. La forza lavoro predominante era italiana. Il Trattato di Roma del 1957 sancì per la prima volta la libera circolazione tra i sei Paesi aderenti alla prima costruzione europea. E assunse un valore simbolico altissimo, perché divenne la risposta a Marcinelle.
Come?
Si capì che bisognava intervenire sulla qualità della vita di questi lavoratori per far ripartire l’economia europea. Persone in carne ed ossa: i dollari del piano Marshall non si potevano certo mettere alla catena di montaggio. C’era bisogno di un processo di assegnazione di diritti, anche per assicurare la tenuta sociale.
Il ruolo della Chiesa?
Ieri come oggi fu di grande supplenza alle manchevolezze dello Stato. A fine Ottocento in America con santa Francesca Cabrini. E quando in Svizzera si aprì il cantiere del Sempione, la prima opera di assistenza la fornì l’Opera Bonomelli. Poi verranno gli Scalabriniani e infine nel secondo Dopoguerra la rete diffusa delle missioni cattoliche. Non era solo assistenza spirituale, ma sociale, anche di rivendicazione sindacale. Il prete faceva da filtro con le autorità consolari, si occupava anche del rinnovo dei passaporti.
Conoscere il nostro passato di migranti ci dà maggiore consapevolezza dei fenomeni di oggi?
Purtroppo ben poco. Molti italoamericani di prima generazione sono oltranzisti contro l’immigrazione ispanica. Un elemento di riflessione interessante piuttosto ce lo fornisce la cronaca. In poche settimane sono arrivati in Italia oltre 130mila ucraini, ma non c’è stata la stessa reazione rispetto al passato. Sono bianchi, biondi e cristiani, li notiamo meno. Ma la realtà della guerra non esiste solo in Ucraina. Il ruolo delle migrazioni nel processo di integrazione europea, che ha significato pace, dovremmo usarlo per capire come contribuire a pacificare il continente africano.
FONTE: https://www.avvenire.it/agora/pagine/leuropa-fatta-da-noi-emigranti