di Bernardo Bertenasco (*)
Si dice che la storia dell’emigrazione italiana in Argentina sia lunga almeno quanto quella della nazione, ma non è corretto: l’esodo precede la formazione dello Stato unitario, preannuncia l’italianità prima che questa sia politicamente sancita.
A differenza di quanto si possa credere infatti i primi italiani arrivarono al Plata a metà del Settecento, un secolo prima della creazione del Regno d’Italia. Tuttavia, almeno nei primi decenni, si trattò di scelte individuali, in prevalenza di piccoli commercianti liguri e lavoratori provenienti da diverse zone della penisola.
In questa fase è infatti molto difficile parlare di “comunità italiana” in senso romantico-risorgimentale così come è controverso parlare di “comunità di destini” con accezione storico-politica: gli arrivi sono sparsi, l’Italia non è unita né linguisticamente, né socialmente, né giuridicamente: le storie di coloro che approdano oltreoceano sono troppo eterogenee per irrigidirle in categorie anche solo vagamente veritiere.
I primi dati di cui disponiamo sono quelli del periodo compreso tra il 1825 e il 1830 (Libro de entrada de pasajeros); da questo momento in poi si potrebbe cominciare a parlare dell’inizio di una “emigrazione italiana” nonché di alcune caratteristiche più definite: sbarcano principalmente uomini soli, genovesi, che si definiscono “commercianti”, “marinai” e sono mossi dalla ricerca della fortuna individuale senza alcun coinvolgimento politico.
Dagli anni ‘30 dell’Ottocento si crea dunque una protocomunità, cioè un gruppo di genovesi (dove genovesi è una sineddoche per liguri) che, in determinati luoghi e situazioni, inizia a sentire dei legami di appartenenza comune, soprattutto grazie alle riunificazioni familiari.
In quel periodo inizia anche una nuova migrazione diversa da quella ligure: l’esodo politico. Dopo i moti del 1821 in Piemonte e, successivamente, del 1831 e 1849, molti cittadini, visto andare in fumo il sogno di un’Italia unita e repubblicana, si trovano a prendere il largo per iniziare una nuova vita da esuli politici in Sud America.
Qui si crea una frattura tra coloro che partivano con il mero desiderio individualistico di accrescere la propria fortuna e coloro che invece sposavano l’ideologia romantico-risorgimentale della patria e della nazione e che, anche al Río de la Plata, trovarono compagni di ideali teorici e prassi politica.
Tuttavia è solo nel periodo successivo che si sviluppa quella che viene ufficialmente riconosciuta come prima ondata migratoria verso l’Argentina: la “grande migrazione” di fine Ottocento e inizio Novecento, costituita principalmente da disoccupati e contadini analfabeti o poco istruiti, in larga parte provenienti dalle regioni del nord, fortemente colpite dalla crisi agraria che favorì il flusso in uscita verso Stati Uniti, Australia e Argentina. In questa fase Veneto e Piemonte forniscono un grandissimo numero di “braccia” che passano dalla Val Padana alla pampa gringa.
Il secondo periodo è quello tra le due guerre, nel quale l’immigrazione italiana in Argentina, come quella di altri Paesi europei, diminuisce sensibilmente.; infatti prima il Governo favoriva o comunque non ostacolava l’emigrazione, che anzi era un’ottima “valvola di sfogo” (come lo sarà dopo la Liberazione), mentre successivamente il fascismo limitò la mobilità dei cittadini, creando miti di appartenenza etnica, nazionale e patriottica volti a ripopolare zone interne come l’Agro Pontino o il Sulcis, dove Mussolini nel 1939 fondò ex novo la città di Carbonia, oppure a colonizzare l’Africa Orientale Italiana.
La terza ed ultima importante migrazione, oggetto di questo articolo, è quella del secondo dopoguerra. Prima di affrontare direttamente l’impatto degli italiani e dell’italianità nell’Argentina post-1945, ho voluto fare un breve sunto della storia dell’emigrazione italiana al Plata per mettere in luce alcune semplici questioni che sono fondamentali per comprenderne l’importanza nella storia contemporanea dei due Paesi: il movimento migratorio verso Buenos Aires precede ampiamente il 1861, non si è mai completamente arrestato da fine Settecento agli anni ‘60 del Novecento ed è estremamente eterogeneo sia sotto il profilo della gestione politica sia riguardo le scelte e le possibilità personali e “di rete” di chi partiva.
Per comprendere le peculiarità dell’ultima ondata migratoria in Argentina occorre conoscere il retroterra sul quale si basano, perché i legami di prossimità delle comunità di determinati paesi, così come i ricongiungimenti familiari, il mito di un’ “Australia italiana” o il ruolo delle associazioni mutualistiche diminuiscono o si trasformano, ma non spariscono interamente nemmeno nel periodo post-bellico, che tuttavia ha caratteristiche uniche, frutto della “nuova umanità” reduce dalle due guerre mondiali e della “grande accelerazioni” tecnico-industriale.
In Primis l’emigrazione italiana in Argentina nel secondo dopoguerra è caratterizzata da numerosi accordi politici tra le due nazioni. I precedenti non mancano, ma mai come alla fine degli anni ‘40 si era sentita la mano dello Stato nella gestione dei flussi migratori. È l’epoca dei trattati bilaterali: il più importante è quello del 1947/48, nel quale si sancisce chi deve gestire la parte finanziaria e sanitaria del viaggio e come deve essere organizzato l’inserimento nel nuovo Paese dei migranti; rimane tuttavia irrisolta la questione fondamentale del contratto di lavoro.
Il Paese usciva dalla guerra mondiale e da quella civile, ereditava le lacerazioni sociali del conflitto tra fascisti e partigiani ed era caratterizzato da un tasso di disoccupazione altissimo: l’emigrazione era necessaria per la “pace sociale”, ma occorreva organizzarla sulle basi del nascente stato sociale e dell’appena approvata costituzione che sanciva come diritto fondamentale il lavoro.
Lo Stato doveva garantire la protezione di tutti i cittadini, anche dei migranti, ai quali chiedeva in cambio di accettare il destino dell’esodo imposto, scelto a tavolino dall’establishement. Si creò quindi una situazione particolare: da un lato una forte propaganda politica e giornalistica a favore dell’emigrazione (e dell’immigrazione in Argentina), dall’altro un impegno statuale a garantire un welfare ai cittadini che si offrivano di andare oltreoceano. Gli interessi dei due Paesi non erano però coincidenti, l’Italia fu costretta ad accettare una certa ambiguità relativa al contratto di lavoro dei propri cittadini, mentre l’Argentina, seguendo il “modello belga” del 1946, si dovette impegnare a fornire grano e frumento in cambio dell’indotto di nuovi lavoratori europei.
Parallelamente a questa nuova leadership statale nei movimenti di persone e alla conseguente creazione di un apparato burocratico e assistenzialista nazionale, si indebolirono le istituzioni comunitarie e mutualistiche create dagli italiani emigrati nei decenni precedenti; fanno eccezione i nuovi sodalizi culturali di cui parleremo in seguito.
Le classi dirigenti italiane, eccetto un primo momento di opposizione della cgil e del Partito Comunista, erano quindi d’accordo sul fatto che l’emigrazione fosse necessaria al fine di diminuire la disoccupazione e aumentare le rimesse, ma restava un problema fondamentale: dove andare?
In primo luogo c’era il nodo delle politiche migratorie restrittive in molti Paesi ambiti: Stati Uniti, Canada, Australia, Venezuela, Germania e Svizzera erano al momento indisponibili a ricevere migranti italiani; restavano quindi la Svizzera, caratterizzata da leggi severe e scarsa integrazione sociale degli italiani, infine la Francia e l’Argentina, che saranno le due mete prescelte per opportunità offerte e “tradizione italiana”, nonché caratterizzate da un portato ideologico totalmente opposto.
La destra cattolica era favorevole ad un esodo di massa verso l’Argentina di Perón, con la quale condivideva posizioni conservatrici sia in materia politica sia in materia religiosa; la sinistra e il mondo dei sindacati erano invece orientati verso la Francia, Paese a forte vocazione socialista e laica.
La stampa rifletteva le diverse fazioni con una polarizzazione volta ad esaltare le qualità di una nazione e a screditare l’altra; tuttavia, in molti casi, i movimenti avvenivano ancora su basi familiari e non ideologiche, fatta eccezione per gli ex fascisti o ex appartenenti al Comitato di Liberazione Nazionale (o per chi gravitava in quelle realtà).
I desideri del presidente De Gasperi, di Papa Pio XII e di monsignor Montini si incontrano perfettamente con quelli di Perón, pronto ad accogliere “mediterranei, cattolici, di sicura affiliazione anticomunista” (Campanini P., 2012).
Il presidente argentino puntava ad un’immigrazione diversa da quella di fine Ottocento e inizio Novecento, composta principalmente da uomini soli, poco istruiti, spesso non stabili e dediti all’inmigración golondrina o comunque privi di legami sentimentali e lavorativi duraturi; su questa premessa si gettano le basi per l’altro aspetto fondamentale dell’accordo: l’ingresso di persone alfabetizzate e scolarizzate, spesso già in possesso di competenze specifiche per svolgere un determinato mestiere.
Essendo i requisiti fondamentali quello ideologico e quello culturale-professionale, nel secondo dopoguerra cambia l’origine sociale degli italiani al Plata e contemporaneamente muta anche la provenienza; molti immigrati ora vengono dalle regioni del Sud Italia, soprattutto da Calabria e Campania.
La crisi agraria della Pianura Padana era infatti terminata da molto tempo, parallelamente le possibilità di studiare e formarsi erano più aperte anche ai meridionali, i quali erano però quasi totalmente sprovvisti di industria, mentre Piemonte, Lombardia e Veneto si stavano avviando ad essere una delle zone più sviluppate d’Europa.
La libertà d’emigrazione rappresentava un elemento di rottura rispetto al regime fascista, tuttavia gli “homini noves” dell’Italia liberata erano intrisi di valori nazionalistici nonché legati a chi restava a casa e puntavano quindi a trasferire i propri guadagni in patria tramite le rimesse. È chiaro che la ricostruzione post-bellica del nostro Paese non sarebbe potuta avvenire senza le rimesse provenienti dal bacino dell’ “Italia fuori dall’Italia”, che era quindi molto interessata a poter trasferire i propri risparmi nella città o nel paese d’origine.
Su questo punto si apre una grande crisi tra le due nazioni, infatti l’Argentina non solo tendeva a limitare la possibilità di trasferire capitali all’estero, ma era (ed è) una nazione politicamente fragile, caratterizzata da un modello economico di ricorrenti crisi e da un’inflazione galoppante (diversamente dall’Uruguay link articolo https://www.ilmalpensante.it/itinerario-storico-geografico-un-italo-uruguaiano-sospeso-europa-america/)
Il cambio peso-lira era fluttuante e incerto, come quello peso-euro; nel biennio 1949/1950 ci fu un’instabilità monetaria che preoccupava molto i migranti italiani che cominciarono, anche grazie all’apertura di nuove frontiere, a guardare ad altri lidi. Ci tengo a sottolineare che questi sono problemi atavici dell’Argentina, nella quale ancora oggi nel giro di una o due settimane il cambio di valuta può variare moltissimo (nel 2019 1 euro passava da 35 a 50 pesos, nel 2022 la situazione non è certo migliorata), così come il prezzo degli immobili, la cui compravendita avviene quasi sempre in dollari, che hanno di fatto sostituito i pesos negli scambi commerciali importanti.
Il flusso verso il Plata si arresta quasi completamente verso la fine degli anni ‘50. Tuttavia è interessante notare come, mentre gli italiani hanno ripreso a emigrare negli Stati Uniti, in Australia e in Europa e l’Argentina non è più una meta ambita, gli scambi commerciali e diplomatici tra questi due Paesi continuano a crescere.
Viene sancito un importante accordo di import-export tra i due Stati: l’Argentina esporta prodotti agricoli e animali e importa prodotti industriali. L’Italia del dopoguerra è un Paese a grande sviluppo industriale, nel quale il modello “statual-capitalistico” fa fiorire importanti aziende che si stabiliscono anche oltreoceano: l’Olivetti a Córdoba nel 1951, la FIAT a Buenos Aires nel 1959.
Parallelamente si sviluppa la piccola e media impresa, nella quale la presenza di immigrati o di discendenti di italiani è consistente, ad esempio nei settori alimentare e vinicolo.
Tali aziende a tradizione familiare incentrano la loro strategia su una sorta di network etnico, cioè su una rete di conoscenze di connazionali e compaesani interessati ad acquistare e promuovere i loro prodotti; tuttavia l’economia di mercato con supporto statuale sostituisce buona parte di queste piccole realtà, in parte anche in crisi per frequenti dispute di natura gestionale o ereditaria.
In questo contesto di capitalismo di Stato, nel quale l’Argentina degli anni ‘50 ricorda l’Italia del Ventennio, spiccano due figure simili e contrapposte allo stesso tempo: Agostino Rocca e Torcuato Di Tella.
Entrambi manager e imprenditori, entrambi conoscitori delle realtà burocratiche “italo-argentine” (come abbiamo detto, le dinamiche statuali dell’Argentina peronista ricordano l’Italia degli anni ‘30), entrambi alla guida di un’importante azienda: Rocca la Techint, Di Tella la Siam.
Tuttavia la loro storia politica è diversa, Rocca è manager pubblico di regime e uomo di potere vicino al Duce e al Partito Fascista, Di Tella attivista antifascista vicino al C.L.N.
Rocca in questo contesto ha un ruolo fondamentale: ricucire i rapporti tra fascisti e antifascisti nel mondo culturale e imprenditoriale italiano in Argentina, anche perché nell’Italia post-liberazione per lui, come per altri collaborazionisti, non c’è spazio.
Dalla fine degli anni ‘50 in poi l’interesse dello Stato Italiano è quello di tutelare i propri interessi commerciali al Plata più che quelli dei migranti, che ormai si recano altrove, e per tal ragione vengono promossi molti viaggi diplomatici, nonché finanziate diverse iniziative culturali.
Saragat visita l’Argentina nel 1965, Pertini, dopo essersi pubblicamente pronunciato contro la dittatura, visita Buenos Aires nel 1984; infine nel 1987 viene stipulata la “relazione associativa particolare”.
Contemporaneamente si sviluppa una politica estera di prossimità: l’Argentina si schiera a favore dell’Italia nella revisione del trattato di pace post-bellico imposto al nostro Paese, mentre quest’ultima si dissocia dalle sanzioni imposte dal Mercato Comune Europeo in occasione della guerra delle Malvine nel 1982.
Il sodalizio italo-argentino è profondo e, pur non manifestandosi più alla “vecchia maniera”, si esprime mediante l’attuale diplomazia culturale che lega i due Paesi. In tale nuova logica di scambio spiccano la fondazione della Dante Alighieri, la creazione di diverse scuole italiane come la “Cristoforo Colombo”, e il sostegno, pur se non strutturale, ad associazioni regionali e progetti di studio e lavoro tra Roma e Buenos Aires.
Le nuove realtà associative sono diverse da quelle precedenti: hanno perso il carattere di solidarietà e assistenza nonché l’italianità profonda che caratterizzava quelle della “grande migrazione”. Dal secondo dopoguerra in poi sorgono nelle maggiori città argentine (ma anche in molti paesi) un fiorire di piccole associazioni regionali, caratterizzate da soci che non parlano più italiano e non conoscono l’attualità del nostro Paese; utilizzano parole arcaiche o dialettali e dibattono di questioni inattuali, come l’antica disputa fascismo-antifascismo, che non hanno nessuna inerenza con i problemi dell’Italia di oggi. Io stesso, frequentando diverse associazioni di Mendoza e provincia (piemontese, veneta, siciliana), ho potuto constatare un grande scollamento tra l’immagine di un’Italia ferma ai fasti del boom post-bellico e la realtà di un Paese in transizione post-industriale, con enormi differenze tra nord e sud, uno stato sociale precario, un turismo aggressivo, un’emigrazione giovanile altissima. Tuttavia è comprensibile che l’ “Italia fuori dall’Italia” sia diversa da quella in patria e che alcune realtà siano maggiormente rappresentate; in fondo si tratta dell’immagine del Paese ereditata da abuelos e bisabuelos, quindi non è semplice smarcarsi da certe categorie, idealizzazioni, nostalgie di realtà irrimediabilmente perdute e superate.
Il debito con il fascismo tuttavia è effettivamente molto grande in Argentina e la segna non solo nel periodo tra le due guerre mondiali, ma anche successivamente. Dopo il 1945 ci fu un’emigrazione fascista al Plata, facilitata dalla Chiesa e dal Governo Argentino.
Tale indotto crea divisioni tra gli immigrati, che Perón, con la costituzione del 1949, vuole rendere cittadini argentini a tutti gli effetti, proponendo un’integrazione politica degli stranieri impensabile in altre destinazioni importanti, come il Belgio. In questo contesto di tensioni interne alla comunità italiana si verificano gli attentati fascisti del 1947 a Buenos Aires: il primo alla sede del periodico comunista “L’Unità degli Italiani”, il secondo al cinema Iguazù durante la proiezione del film Roma città aperta. Da quel momento in poi anche i peronisti tolgono sostegno agli ex fascisti e così una parte dell’opinione pubblica immigrata, che come prima non voleva essere identificata quale mafiosa, adesso non vuole essere associata a simpatie politiche totalitarie.
Dagli anni ‘80 invece l’Argentina è meta di immigrazione interna al Sud America e di emigrazione verso l’Europa, della quale l’Italia rappresenta quasi sempre solo l’approdo e non il punto d’arrivo finale, che generalmente si trova più a nord. In questo contesto si corrobora la prossimità tra i due Paesi, legati da una sincera curiosità, amicizia e voglia di riscoprire le proprie origini. Tale processo porta inevitabilmente alla diffusione della cultura italiana a livello istituzionale e informale (soft power capillare sul territorio).
I corsi di lingua italiana sono diffusi, così come l’interesse per la letteratura ed il cinema degli ultimi sessant’anni. Il pensiero di molti intellettuali, ad esempio Gramsci e Bobbio, è apprezzato e studiato oltreoceano; lo stesso avviene per i film di Fellini e Visconti o i romanzi di Pavese, Fenoglio e Vittorini: il neorealismo italiano fa parte della cultura di massa argentina.
Oggi sulle sponde del Plata le opere di Dal Masetto, Borges, Giardinelli, Sábato e altri letterati continuano a tenere in auge un legame storico indissolubile, che mostra come l’Argentina sia un Paese di immigrati e l’Italia un Paese di emigrati.
*) – https://independent.academia.edu/BernardoBertenasco