Emendamento Lupi: emigrazione fuori gioco, o politica fuori fase ?

di Rodolfo Ricci
Intorno all’emendamento Lupi e alla sua approvazione a larga maggioranza bipartisan alla Camera si sono avute diverse reazioni, più o meno autorevoli, più o meno condivisibili. Non vi è stata però l’alzata di scudi generalizzata, quella del popolo dei fax o delle e-mail, per capirci; ciò potrebbe indicare che l’interesse degli italiani all’estero verso la politica italiana e i suoi esponenti ha raggiunto livelli molto bassi come da tempo non si registravano.
D’altra parte, le conquiste concrete ottenute con l’istituzione della Circoscrizione Estero e l’elezione dei 18 parlamentari sono state, per opinione diffusa – condivisa anche dai parlamentari più accorti -, ben magre. Per essere giusti, bisogna anche dire che il diavolo ci ha messo lo zampino, perché l’esordio dei nostri 18 in parlamento corrispose, più o meno, all’inizio della grande crisi in cui siamo tuttora impantanati e, le politiche di spendig rewiew (che per noi ha significato la cancellazione di un buon 80% dei precedenti interventi a favore delle collettività emigrate), hanno caratterizzato l’intero decennio.
Ne è risultata una riduzione generalizzata della capacità di rappresentanza (se rappresentanza significa anche negoziare e far valere interessi e diritti), che ha coinvolto anche i Comites, che all’ultima elezione hanno raccolto non più del 5% di affluenza al voto e il Cgie, mutilato di consiglieri e assemblee plenarie che ha difficoltà a far rispettare perfino la propria legge istitutiva; insomma, l’architettura istituzionale approvata con successive leggi sulla base delle indicazioni della Seconda Conferenza Nazionale dell’Emigrazione del lontano 1988, ne è uscita duramente provata.
Adesso la polemica tecnicistica sull’emendamento Lupi, che tuttavia si spera possa essere bloccato al Senato, magari insieme all’intero impianto dell’inaccetabile Rosatellum, lascia un po’ il tempo che trova. E’ vero che lo spirito della modifica istituzionale degli articoli 48, 56 e 57 della Costituzione viene compromesso. E’ vero che la Legge 459/2001 che riservò il voto passivo a chi all’estero vive e lavora, viene in questo modo radicalmente messa in discussione, tra l’altro con l’utilizzo di argomentazioni alquanto pretestuose e oblique.
Utilizzando alcune di tali argomentazioni, verrebbe tra l’altro da chiedersi se invece è legittimo che possano candidarsi in Paramento persone che fino a ieri hanno rappresentato poteri che possono essere – e spesso sono – perfino più in conflitto con quelli di magistrati o consiglieri comunali, regionali di parlamentari di altri paesi.  Chi ? Per esempio i capitani di industria o i manager di multinazionali, di banche internazionali, i cui legami e interessi possono dipanarsi su vaste aree del pianeta, ecc. ecc.
Ma la questione che al di là di ciò apre un vulnus politico grave, anche in termini costituzionali, è quella relativa alla incandidabilità di un cittadino italiano all’estero, nei collegi nazionali, mentre l’emendamento introduce la possibilità di candidature dall’Italia in una delle ripartizioni della Circoscrizione Estero.
Questa assenza di reciprocità, cioè il divieto di candidarsi in Italia per una persona che è emigrata all’estero, fa capire in modo eclatante in quale considerazione il mondo della politica italiana tiene quello dell’emigrazione. (Per non parlare dell’immigrazione, per la quale si attende il recepimento di una risoluzione del Parlamento Europeo del 2003 che invita gli stati membri a introdurre il voto amministrativo per coloro che risiedono legalmente da almeno 5 anni nei territori della UE, a prescindere da dove provengano.)
La contraddizione tra presunta globalizzazione e presunto sovranismo raggiunge in questo ambito delle punte di eccellenza: gli immigrati potranno votare solo dopo che sono diventati cittadini (e la cittadinanza viene negata anche a chi nasce sul suolo patrio), mentre per il cittadino che se ne è andato o se ne va, viene introdotta una condizione differenziale: si può candidare, sì, ma non sul suolo patrio che è a loro interdetto.
Secondo questo forma di ostracismo del XXI secolo, solo la razza italica e stanziale ha pieni diritti. Tutti gli altri no, in misura variabile. (Si tratta in realtà di una razza particolare, quella della casta affezionata al seggio).
La cosa può non stupire più di tanto. Sappiamo con chi abbiamo a che fare. Ma forse anche sì, se si tiene presente che i due mondi paralleli dell’immigrazione e dell’emigrazione sono cresciuti e stanno crescendo a ritmi abbastanza rapidi e hanno ormai superato il 15% della popolazione complessiva. (Un mondo a cui spetterebbe, proporzionalmente, eleggere circa 90 parlamentari).
Mentre sul fronte dell’immigrazione siamo confrontati quotidianamente con le sue emergenze, sul versante dell’emigrazione si ignora che essa cresce a tassi addirittura maggiori di quelli dell’immigrazione.
Fin dall’inizio di questo decennio, la Filef ha insistito, dati comparati alla mano, sul fatto che la nuova emigrazione italiana è circa 3 volte superiore a quella registrata dalle statistiche nazionali. E che non è riassumibile nella narrazione dei cervelli in fuga o degli expat, piuttosto è la ripresa di un fenomeno strutturale della storia del paese che continua a non essere in grado di valorizzare le risorse e le competenze di cui dispone. Figuriamoci di quelle di cui non dispone più…
Negli ultimi due anni, autorevoli centri di ricerca, opinionisti vari, rappresentanze delle parte sociali (si è aggiunta un mese fa Confindustria), perfino pezzi delle istituzioni repubblicane, concordano che ci si trova di fronte ad una preoccupante novità: da paese di immigrazione, siamo di nuovo diventati prevalentemente paese di emigrazione. Siamo dunque ad un crocevia storico. In ciascuno degli ultimi 3 anni se ne sono andati mediamente 250/300 mila persone. C’è un milione ed oltre di italiani all’estero che non figura nell’Aire. Continuiamo di questo passo per altri 5 anni e vediamo che succede…
Il mondo della politica, salvo alcune eccezioni, non si interroga né su quanto, né sul perché o sul per come; cosa significhi questa novità per il sistema paese, per il futuro dell’Italia, per il declino di gran parte delle aree interne, per il destino demografico, quindi sociale, quindi economico del paese, è qualcosa che non lo tange. Né si interroga o riflette su una nuova necessitata dimensione di diritti e di tutele che alla luce di questi dati si impone.
Piuttosto produce emendamenti attraverso i quali, pur in presenza di un grande flusso di nuova emigrazione, vengono ulteriormente ridotti a chi ne fa parte, diritti, oltre che sociali, anche di cittadinanza. (Da ricordare che gli eletti all’estero erano 18 quanto lo stock di emigrazione era di 3,6 milioni; continuano ad essere 18 a popolazione all’estero quasi raddoppiata).
Analogamente all’Inps, secondo il cui presidente andrebbe contenuto l’esborso pensionistico per chi sta all’estero e per chi se ne va a vivere in un altro paese per arrivare alla fine del mese, la considerazione della classe dirigente verso la nuova (e la vecchia) emigrazione è che essa continua a costituire un fastidio, anche se si toglie dai piedi.
Qualcuno ha avuto l’ardire di attribuire alle polemiche sulle modalità di voto e di scrutinio sviluppatesi in occasione dell’ultimo referendum costituzionale, l’esito dell’emendamento in questione. Mente ha sorvolato come uccel di bosco, sul fatto che il proprio partito, che aveva inviato milioni di lettere all’estero per il Sì (il PD), lo scorso dicembre, è quello che ha fatto passare (secondo Lupi lo ha addirittura chiesto) l’emendamento in Commissione Costituzionale e alla Camera.
Con ciò è pienamente confermata la strumentalità con cui buona parte delle forze politiche tiene in conto le collettività emigrate e il voto all’estero. Servono quando servono.
La vicenda dell’emendamento Lupi è dunque un ulteriore elemento di chiarezza, per chi ne avesse ancora bisogno: mentre nel dopoguerra qualcuno disse “imparate una lingua e andate all’estero”, adesso si è anche meno propedeutici e più espliciti: “andate all’estero e non disturbate il manovratore”. Ovvero:  se siete all’estero (dove volentieri desideriamo che andiate) siete semplicemente fuori gioco.
Non sarà invece che siamo di fronte ad una politica ampiamente fuori fase ?
Abbiamo letto le recenti dichiarazioni di chi invita a indire una nuova conferenza nazionale dell’emigrazione. Siamo d’accordo. Il mondo associativo raccolto nel FAIM la sta chiedendo fin dalla sua nascita.
Se mai essa sarà istituita è fondamentale organizzare preventivamente qualche seminario di  aggiornamento per i futuri componenti delle diverse Commissioni della Camera.
 
Rodolfo Ricci
(FIEI)

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