Per stipendi più alti e occupazioni migliori, il 35% degli under 30 è disposto a lasciare il Paese. Cgil: “Il lavoro va retribuito in modo giusto e dignitoso”
Il 35 per cento dei nostri giovani è pronto ad andarsene all’estero: per avere salari più alti, opportunità di lavoro migliori, fare un’esperienza di vita, avere stabilità professionale. E per avere un lavoro più gratificante, addirittura l’85 per cento mette in conto la possibilità di trasferirsi lontano da casa. A rivelare questi dati è un’indagine realizzata da Ipsos per la Fondazione Giuseppe Barletta (che rivolge la sua attenzione allo studio, l’educazione, l’istruzione) su un campione di 1.200 under 30.
Fenomeno in crescita
Si tratta di un fenomeno che non è nuovo. Secondo l’ultimo rapporto Italiani nel mondo della Fondazione Migrantes, che rielabora i dati dell’Anagrafe, il 44 per cento di chi ha lasciato il Belpaese nel 2022 era un giovane tra i 18 e i 34 anni, due punti in più rispetto agli anni precedenti. La presenza dei connazionali fuori dai confini è cresciuta dal 2006 del più 91 per cento, le donne all’estero sono praticamente raddoppiate (più 99,3), i minori sono aumentati del 78,3, gli over 65 anni del più 109,8 per cento.
I nati all’estero sono cresciuti in 18 anni del 175 per cento, le acquisizioni di cittadinanza del 144, le partenze per espatrio del 44,9. Una fotografia che ha fatto dire al capo dello Stato Sergio Mattarella che la fuga dei cervelli è “una patologia” alla quale “porre rimedio”, da cui l’invito alla classe politica a “individuare percorsi per garantire il ritorno in Italia”.
Ipoteca sul futuro dell’Italia
“I dati che emergono da questo sondaggio confermano purtroppo un trend di lungo periodo – afferma Gianluca Torelli, responsabile politiche giovanili della Cgil -: agli effetti dell’inverno demografico si somma la fuga dei giovani, e questi due fattori, messi insieme, rischiano di porre una seria ipoteca sul futuro del nostro Paese. Stiamo depauperando un’intera generazione, fatta di ragazze e ragazzi che pur studiando e impegnandosi non vedono riconosciuti i loro sacrifici e le loro competenze”.
Si tratta della cosiddetta generazione Z, quella che dovrebbe fare la fortuna dell’Italia, e che invece la sta lasciando o è pronta a farlo. La conferma nel rapporto Istat sulle migrazioni nazionali e internazionali presentato a maggio scorso: negli ultimi dieci anni il nostro Paese ha visto partire 352 mila giovani tra i 25 e i 34 anni, di cui 132 mila laureati. Anche considerando i 45 mila rientri, il saldo resta negativo.
Secondo uno studio pubblicato dalla Fondazione Nord Est e dall’associazione Tiuk, tra il 2011 e il 2021 sono almeno 1,3 milioni i 18-34enni emigrati in Paesi Ue e in Gran Bretagna. Per ogni giovane straniero che sceglie di vivere da noi, ci sono 17 italiani che abbandonano il Paese.
Le responsabilità del governo
“Su questo, il governo ha delle responsabilità enormi – dichiara Lara Ghiglione, segretaria confederale della Cgil -: la prima ragione che spinge i giovani ad andare via è il basso livello dei salari. Non ci sorprende che sia così: il lavoro va retribuito in maniera giusta e dignitosa, cosa che nel nostro Paese spesso non avviene. Non bastano gli slogan sulle opportunità che offre l’Italia, servono fatti concreti, e per chi lavora la paga è l’aspetto più concreto da tenere in considerazione. Pensiamo che sia necessaria una legge sul salario minimo e che al tempo stesso occorra una legge sulla rappresentanza, che avrebbe l’effetto di migliorare il livello di tutta la contrattazione collettiva e quindi di far crescere i salari”.
I costi della fuga
L’Istat registra che i lavoratori italiani guadagnano circa 3.700 euro l’anno in meno della media dei colleghi europei e oltre 8 mila euro in meno della media di quelli tedeschi: la retribuzione media annua lorda per dipendente è pari a quasi 27 mila euro, inferiore del 12 per cento a quella media Ue e del 23 a quella tedesca, nel 2021, a parità di potere d’acquisto.
“Serve un’azione decisa verso le aree più deboli del Paese – prosegue Ghiglione -. Sommando calo delle nascite ed emigrazione, è il Mezzogiorno a pagare il saldo negativo più pesante. Non a caso: è la parte del Paese dove ai giovani vengono offerti quasi esclusivamente contratti da fame, lavori precari, e dove spesso le opportunità realizzate grazie alle risorse europee non sono neanche conosciute da quelli che sarebbero i potenziali destinatari. Su questo pesa anche la fragilità del tessuto istituzionale, e l’incapacità della politica di attrarre i giovani dentro i processi decisionali: spesso anche le politiche pensate per i giovani sono, nella realtà dei fatti, lontane dai giovani perché non tengono conto delle loro reali esigenze, dei loro bisogni e delle loro sensibilità”.
Il fallimento della politica dei bonus
Per rispondere all’emergenza salari che cosa hanno fatto gli ultimi esecutivi? Politiche basate su bonus e incentivi una tantum, che stanno dimostrando di essere un fallimento. E dire che in base ai calcoli dell’Ocse la formazione di un diplomato costa allo Stato 77 mila euro, quella di un laureato 164 mila euro, quella di un dottore di ricerca 228 mila euro. Secondo alcune stime, i nostri cervelli in fuga ci costano 4,5 miliardi di euro all’anno.
“Se oggi non si inizia a investire seriamente sui giovani – conclude Torelli -, anche alzando i livelli salariali e riconoscendo sin da subito le loro potenzialità e competenze, continueremo a perdere alcune delle nostre energie migliori, danneggiando in maniera irrimediabile il nostro tessuto demografico, culturale, sociale e depauperando la stessa competitività del nostro sistema produttivo”.
FONTE: https://www.collettiva.it/copertine/italia/salari-bassi-i-giovani-italiani-sognano-lestero-bppvntkq?guid=nl-1720505711